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Come si formano il gusto e le nostre preferenze a tavola

E’ proprio vera l’espressione “mangiare con gli occhi”. Pare derivi dagli antichi romani i quali sapevano come la sensazione di acquolina in bocca scattasse semplicemente “mangiando con gli occhi” le pietanze dei banchetti offerte alle divinità durante i riti funerari e che i comuni mortali non potevano sfiorare. Tutti abbiamo provato l’esperienza di osservare un piatto e avere la sensazione di acquolina: è il momento in cui alcune ghiandole producono saliva la quale, grazie all’aiuto meccanico della masticazione, favorisce reazioni chimiche e ci prepara a ingerire e digerire il cibo, assaporandone il gusto

Alcuni ricercatori hanno rivelato che l’acquolina non risparmia neanche gli scimpanzé. Secondo il neuroscienziato Gordon Shepherd, la ricerca del sapore è stato il primo fattore coinvolto nell’espansione del cervello dei primati, più importante ancora rispetto all’alimentazione in sé. Oggi si sa che la percezione del sapore, e di conseguenza la formazione delle nostre preferenze a tavola, non dipende solo dal senso del gusto, come spesso si pensa. “E’ una esperienza multisensoriale, vi collaborano tutti e cinque i sensi”, spiega Carol Coricelli, ricercatrice in neuroscienze cognitive presso la Western University in Canada, autrice con Sofia Erica Rossi del libro Guida per cervelli affamati (il Saggiatore, € 22).

1. Vista

Le informazioni visive sono le prime su cui facciamo affidamento. D’altra parte l’uomo è un animale cosiddetto “visivo” la cui corteccia cerebrale è dedicata in gran parte proprio al sistema visivo. “Vedere il colore del cibo è uno dei principali elementi che permette di estrarre, anche a distanza, informazioni rapidamente”, prosegue la ricercatrice. “Grazie a meccanismi ereditati dai nostri antenati, dalle sfumature del colore riconosciamo se un frutto è maturo senza bisogno di assaggiarlo”.

“A volte, però, la visione può trarre in inganno. In una sala semibuia, nel 1973 la scrittrice Jane Wheatley organizzò una cena a base di bistecca, patate fritte e piselli. Quando accese la luce, gli ospiti si accorsero che la bistecca era blu, le patate erano verdi e i piselli rossi. Molti smisero di mangiare quello che al buio avevano apprezzato perché quando i colori canonici non combaciano, il nostro cervello ci mette in guardia”.

“D’altra parte sin da bambini impariamo ad associare il rosso con i pomodori più gustosi, il giallo con la banana matura, il marrone con un dolce al cacao. Anche vedere la presentazione del cibo sul piatto influisce sul sapore. In uno studio del 2014, Charles Michel, oggi artista e chef televisivo, ha impiattato in tre modi diversi un’insalata preparata con gli stessi ingredienti. I 66 partecipanti all’esperimento hanno valutato come molto più gustosa l’insalata servita in una disposizione ispirata a uno dei dipinti di Vasilij Kandinskij, rispetto a quando era proposta con gli ingredienti impilati al centro del piatto o allineati in file ordinate”.

2. Olfatto

A differenza di vista e udito, sensi fisici che dipendono da stimolazioni come luce o suoni, l’olfatto, come il gusto, è un senso chimico. “Si basa, infatti, sull’attività di recettori sensibili, determinati geneticamente, a diverse sostanze chimiche”, precisa Coricelli. “Questi recettori sono come serrature che si aprono grazie alla “chiave” di una specifica molecola odorosa con cui si entra in contatto quando si annusa un piatto o un alimento. Per esempio, il caffè e il cacao hanno oltre 600 molecole-chiave odorose, la fragola ne ha circa la metà, la banana una ventina”.

“Una volta entrate in bocca e da qui alla cavità nasale, queste molecole si legano ai recettori delle cellule nervose olfattive che inviano un segnale al cervello. Questo processo riguarda solo l’olfatto ortonasale, modalità grazie alla quale percepiamo gli odori in senso stretto. L’uomo ha anche un secondo olfatto, detto retronasale. Una volta ingeriti, gli alimenti sprigionano odori che all’esterno della bocca non sarebbero percepiti. Quando le molecole-chiave odorose risalgono nella cavità nasale percorrendo lo stesso percorso dell’aria inalata nella respirazione, danno origine all’aroma. Ecco perché chi è raffreddato fa più fatica a percepire i sapori. Inoltre, secondo una ricerca condotta al Monell Chemical Senses Center di Philadelphia dal biologo Joel Mainland, a far percepire gli odori con sfumature differenti contribuisce anche il 30% dei recettori olfattivi che è diverso da un individuo all’altro”. 

3. Gusto

Le papille gustative, cellule annidate appena sotto la superficie della lingua, fanno riconoscere i cinque gusti primari: dolce, salato, amaro, acido e umami (letteralmente “sapido”, deriva dal glutammato monosodico). “Il gusto è un senso chimico molto più limitato rispetto all’olfatto, i suoi recettori riconoscono infatti soltanto pochi gusti rispetto alle centinaia di molecole odorose captate dai recettori olfattivi. Sono le diverse combinazioni e le differenti quantità dei cinque gusti che producono i sapori che si percepiscono, con l’aiuto ovviamente degli altri sensi”, aggiunge Coricelli. 

4. Tatto

“Il senso del tatto non riguarda soltanto quello che si percepisce grazie alle nostre mani la cui importanza emerge anche da studi. Infatti, è stato dimostrato come l’esperienza di mangiare senza posate, è il caso del finger food, possa rendere la pietanza più gustosa, con il rischio di eccedere con le porzioni. Il senso del tatto si attiva anche attraverso centinaia di recettori ad hoc nella bocca, sulle labbra e sulla lingua: aiutano a definire la consistenza, una delle prime caratteristiche  fisiche percepite quando  ingeriamo qualcosa, la forma, la dimensione e la temperatura degli alimenti. Sono tutti elementi fondamentali per formulare, a volte in modo inconsapevole, le nostre valutazioni”. 

5. Udito

Può sembrare strano, ma il cibo ha un suono. “E’ prodotto dalle vibrazioni acustiche generate dalla masticazione e trasmesse all’orecchio interno. Ne teniamo inconsciamente conto e trasmette informazioni sulla freschezza e sulla consistenza”, dice Coricelli. “Una patatina croccante, per esempio, piace di più e produce vibrazioni ad alta frequenza, sono invece più basse quelle generate da un biscotto. Anche le bibite hanno un suono, quello della carbonatazione: si coglie quando si stappa una bevanda gassata e si ascolta il rumore delle bollicine di anidride carbonica”.

Nel cervello

La percezione del cibo non è solo un’esperienza multisensoriale. Cervello e sistema nervoso, grazie al lavoro di recettori, fibre e neuroni, collaborano con il sistema sensoriale. “Grazie alle moderne tecniche di neuroimmagine, i ricercatori hanno disegnato una mappa di come il cervello “si accende” quando vediamo, annusiamo, gustiamo o tocchiamo il nostro cibo preferito”, dice la ricercatrice Carol Coricelli. “La corteccia striata entra in gioco per la visione, il bulbo olfattivo per l’olfatto, la corteccia gustativa primaria per il gusto, la corteccia somatosensoriale primaria per il tatto e quella uditiva primaria per l’udito. Il talamo, invece, smista  le informazioni provenienti dai diversi stimoli sensoriali, e le aree cerebrali coinvolte nei processi di piacere e ricompensa, come l’amigdala, si attivano indipendentemente da quale sia stato il senso che le abbia sollecitate”.

Perché ai buffet e agli aperitivi si mangia di più

L’abbiamo sperimentato tutti: davanti a un buffet o a un aperitivo si tende a mangiare di più. “La spiegazione risiede nella cosiddetta sazietà sensoriale specifica: è un meccanismo evolutivo fondamentale per la sopravvivenza dei nostri antenati in quanto ha impedito all’uomo di mangiare all’infinito lo stesso cibo con i medesimi elementi nutritivi. Questo ha consentito di sviluppare una dieta onnivora, variegata. Quando vengono offerte pietanze con caratteristiche sensoriali differenti (consistenza, odore, forma e gusto), come accade con gli stuzzichini di un aperitivo, con i piatti di un buffet o con i dolci a fine cena, il freno della sazietà sensoriale specifica non scatta. Per questo si rimettono in moto i meccanismi ormonali e nervosi che regolano lo stimolo della fame e della sazietà e ritorna la motivazione a mangiare”, conclude Coricelli.

Come cambiano i sensi con il passare degli anni 

Il modo in cui si percepisce il gusto inizia a cambiare con l’invecchiamento, quando anche la sensibilità dell’olfatto comincia a diminuire. “In condizione di salute le cellule nervose olfattive nella cavità nasale hanno un ciclo di vita di circa due mesi e poi sono sostituite, mentre nella vecchiaia questo meccanismo di sostituzione rallenta sempre di più”, dice la neuroscienziata Raffaella Rumiati della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste.

La cattiva masticazione è un altro fattore che contribuisce alla scarsa individuazione dei sapori come i cambiamenti strutturali delle papille gustative: con l’età diventano più chiuse e le sostanze chimiche contenute negli alimenti è più difficile che entrino in contatto con i recettori per creare il gusto. “Esistono condizioni mediche che compromettono l’olfatto”, prosegue Rumiati. “È il caso del trauma cranico che provoca un urto violento della testa. Può comportare iposmia, perdita parziale della sensibilità olfattiva, o anosmia completa, dipende dall’entità della lesione delle fibre nervose. Disturbi dell’olfatto sono associati anche a malattie neurodegenerative. Una riduzione o perdita dell’olfatto o del gusto potrebbero essere segnali dell’esordio della malattia di Parkinson. Vari studi dimostrano l’esistenza di variazioni quali-quantitative dell’olfatto nei pazienti con Alzheimer che mostrano un deficit cognitivo di memoria degli odori”.

Che cos’è l’effetto Madeleine 

Il profumo e il sapore di un cibo, come quello più classico di una torta della nonna, può evocare in noi, in modo involontario, un ricordo preciso. Questo fenomeno si chiama effetto Madeleine e prende il nome dai dolci francesi, le Madeleine, protagonisti dell’opera Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. Questo accade perché l’olfatto è connesso con le aree limbiche, coinvolte nei processi emotivi, e con l’ippocampo, struttura centrale della memoria. Quindi, basta sentire un odore già incontrato anni prima e fissato nella memoria a lungo termine perché torni in mente il nostro passato. 

Il gusto si forma già nella pancia della mamma 

Nelle prime settimane di gestazione i feti iniziano a mostrare le loro preferenze culinarie. “Il liquido amniotico in cui galleggiamo è la prima sostanza che assaporiamo nella nostra vita. Contiene alcuni sapori degli alimenti che la madre ingerisce e che il feto percepisce grazie alle papille gustative che iniziano a svilupparsi intorno alla diciassettesima settimana. I recettori olfattivi primari si formano completamente un po’ più in là, intorno alla ventiquattresima settimana”, dice Carol Coricelli.

“In una ricerca è stato chiesto ad alcune mamme di assumere, in particolare durante l’ultimo trimestre, aglio e anice i quali venivano poi presentati ai neonati a tre ore dalla nascita e al quattordicesimo giorno di vita. I risultati hanno evidenziato che nei bambini esposti in maniera indiretta ai due stimoli, il livello di accettazione era maggiore rispetto ai nati da madri che non avevano assunto quelle sostanze nella gravidanza. Lo hanno comunicato attraverso l’espressione facciale di piacere e avvicinando la testa agli stimoli odorosi”.

“Altre indagini hanno messo in luce come alla nascita esseri umani (e ratti) abbiano una preferenza per il gusto dolce e un’avversione per il gusto amaro e acido. Lo manifestano con espressioni facciali che entrambe le specie mostrano quando una goccia di acqua e il sapore viene posata sulla lingua. Questo potrebbe dipendere dal ruolo del gusto come sistema di rilevamento chimico per aiutarci a trovare ciò che è nutriente (dolce) e come difesa contro ciò che è velenoso (amaro)”. Ecco perché è difficile fare a meno dello zucchero. Chiunque decida di ridurre il suo consumo, infatti, si scontra con milioni di anni di pressione evolutiva per trovarlo e mangiarlo perché garanzia di molte calorie con poco sforzo. 

Il sesto e settimo gusto

L’Olimpo dei gusti sembra, però, essere in evoluzione. Ai cinque gusti primari si è aggiunto il sesto, quello del grasso, come si legge anche in una review pubblicata su Flavour. Lì per lì molti scienziati hanno pensato che si trattasse di una consistenza o di un aroma, non di un gusto. “Ma la successiva identificazione di recettori del gusto per i grassi insaturi sulla lingua ha sparigliato le carte, anche se la questione non è ancora stata chiarita in modo definitivo”, precisa Coricelli. Inoltre, una ricerca pubblicata su Plos One ha indicato come il gusto dell’amido potrebbe essere una settima qualità gustativa.  

Perché decidiamo che è il momento di mangiare

Sono diversi i fattori che fanno scattare lo stimolo della fame, quel gorgoglio che risuona nello stomaco e che porta ad aprire il frigorifero o a ordinare a domicilio una cena online. “Entrano in gioco meccanismi regolatori sia ormonali sia nervosi”, sottolinea Andrea Ghiselli, nutrizionista.

“Quando le riserve di glucosio e insulina, un ormone prodotto dal pancreas, calano, la grelina, un ormone secreto dallo stomaco, trasmette ai neuroni il bisogno di iniziare un pasto. Più lo stomaco è vuoto più cresce la produzione di questa sostanza. Per questo si comincia a mangiare. Il cervello capisce che tutte le nostre cellule hanno ricevuto energia a sufficienza quando l’insulina inizia a salire dopo l’aumento di glucosio nel sangue e nel tessuto adiposo: qui infatti viene “stoccata” l’energia in eccesso che servirà da riserva nel momento del bisogno. Man mano che incrementa la riserva di grasso cresce la produzione di leptina, l’ormone che induce il senso di sazietà segnalando al cervello che occorre ridurre l’assunzione di cibo. Non appena le riserve di glucosio si abbassano di nuovo, lo stimolo della fame riappare. L’altro meccanismo che invoglia a mangiare è quello della ricompensa e del piacere”.

Questa “molla” scatta  anche in assenza di una reale necessità fisiologica, sappiamo bene che mangiamo anche solo per gola come ricorda Dante nell’Inferno. “Per questo oggi, in un mondo che offre prodotti alimentari in abbondanza, facili da reperire e di tutte le fasce di prezzo, dovremmo dare più peso ai meccanismi che sviluppano l’autocontrollo”, aggiunge il nutrizionista Ghiselli. “Per potenziarli servono educazione alimentare e ripensamento della società in modo che sia più semplice consumare alimenti di qualità maggiore”.

Mondo animale

Per migliorare il nostro senso di autocontrollo potrebbe essere d’aiuto ispirarsi anche al mondo animale. “In natura procurarsi il cibo non è una cosa facile. Le fonti energetiche più importanti, cioè che hanno un maggior apporto di calorie, sono quelle più difficilmente raggiungibili”, precisa Ghiselli. “Se un animale non è tanto affamato e vede passare una preda, valuta se vale la pena di sprecare calorie. Questo atteggiamento risponde alla teoria dell’optimal foraging, il foraggiamento ottimale, secondo la quale il costo dello sforzo deve essere inferiore all’energia che è contenuta nell’alimento più quella che si spende per andare a cercare la preda e prepararla per il pasto. Non a caso non si osserva mai un animale obeso che, invece, diventa tale quando vive nelle nostre case. Nell’uomo questo sistema di autoregolazione è saltato”.

L’importanza della cottura

Per capire il nostro comportamento alimentare è interessante, infine, osservare le conseguenze dell’invenzione della cottura che, secondo il primatologo Richard Wrangham, è la chiave di volta per l’evoluzione umana, la più grande scoperta dopo il linguaggio come la definì Charles Darwin. “Cuocere significa rendere i cibi più sicuri, perché molte molecole tossiche vengono distrutte, e più digeribili“, spiega la neuroscienziata Raffaella Rumiati della Sissa di Trieste. “L’uso del fuoco ha permesso una serie di trasformazioni anche nella fisiologia dell’uomo e all’interno della società: bocca, mandibola, denti e apparato digerente sono diventati più piccoli, si è sviluppata la divisione del lavoro tra uomini e donne destinate di più alla cucina. Il cambiamento più radicale, però, resta lo sviluppo di un cervello più grande: nei Sapiens arriva a misurare 1300 cm3, quasi il triplo di quello dell’australopiteco Lucy”.

Che cosa influenza le nostre scelte

Oltre al ruolo di sensi e cervello, sulle nostre preferenze alimentari entrano in gioco altri fattori: il voler riscoprire l’origine delle proprie tradizioni culinarie, la musica, la luce e, più in generale l’ambiente che ci circonda, colori e forme dei piatti, amici che si frequentano.  “Nel 2012 presso il centro di ricerca gastronomica Alicia Foundation, in Spagna, gli studiosi fecero testare a 54 partecipanti un dessert di fragole, prima su un piatto bianco e poi su piatto nero. I soggetti lo valutarono il 10% più dolce e il 15% più saporito se servito su un piatto bianco”, dice Coricelli. 

Il colore

Nella storia il colore ha sempre influito sulle scelte alimentari. “L’Homo sapiens ha preferito i cibi con sfumature di rosso rispetto a quelle verdi”, prosegue la neuroscienziata Raffaella Rumiati che ha condotto una ricerca su questo assieme ad altri colleghi della SISSA di Trieste. “La maggior attrazione per le nuance più accese probabilmente dipendeva dall’associazione agli alimenti commestibili e a un maggior grado di maturazione. Il verde, invece, ricordava il fogliame poco appetibile e magari velenoso. L’evoluzione ha poi permesso di acculturarci e per questo oggi mangiamo l’avocado, per esempio, che è verde. Davanti al blu, invece, scatta nella nostra testa un campanello d’allarme perché è una nuance non diffusa in natura e con la quale siamo, di conseguenza, poco familiari”.

Persone, forme e porzioni

Tra gli altri fattori che ci condizionano a tavola c’è il mangiare in compagnia: stimola ad abbuffarsi di più come, si legge su Appetite, consumare un pasto con una persona in sovrappeso può aumentare l’assunzione di cibo non salutare. Sembra quasi che in questo modo ci si integri meglio con i nostri commensali. “Da un’indagine canadese è invece emerso come forma e dimensione dei piatti possono avere un ruolo nelle scelte alimentari. La stessa cheesecake proposta su piatti bianchi o neri di forma quadrata o tonda veniva percepita più dolce su quelli chiari tondi”, prosegue Rumiati. “Sempre a proposito di piatti, lo psicologo americano Paul Rozin fu tra i primi a suggerire di usarli più piccoli in una mensa universitaria per far mangiare meno le persone. Un trucco che funziona, complice anche la vergogna di ripassare una seconda volta”. 

Aspettativa e genetica 

Infine, in un esperimento dell’università del Sussex è stato inserito in due menu un gelato al salmone: in uno veniva definito semplicemente “gelato”, nell’altro  “mousse salata gelata”. Chi ha letto il primo menu ha espresso un giudizio negativo, come se non si fosse mentalmente preparato al gusto diverso. A dimostrazione di come l’aspettativa influisca. Anche la genetica ci condiziona. “Tanto che alcuni ricercatori hanno suddiviso la popolazione in base alla capacità di percepire i gusti”, conclude Coricelli. “Il 25% è composta dai super gustatori che hanno circa 16 volte più bottoni gustativi rispetto ai non gustatori che rappresentano un altro 25%. Il resto della popolazione è occupata dalla via di mezzo tra le due tipologie di gustatori”.

Perché piace parlare di cucina

In tv da anni imperversano trasmissioni di cucina che raggiungono target molto trasversali. I social non sono da meno visto che pullulano di post-reportage pubblicati da utenti che immortalano i piatti che stanno gustando. “Questo avviene perché il consumo in generale di un prodotto, e in particolare del cibo, è un’attività utile alla comunicazione identitaria, all’espressione del sé”, spiega Nadia Olivero, psicologa e professore associato di Marketing, dipartimento di Scienze economico-aziendali e diritto per l’economia e diritto per l’impresa, Università Milano Bicocca.

“L’oggetto cibo è estremamente simbolico. E’ il primo oggetto con cui entriamo in contatto quando nasciamo. E’ un oggetto d’amore che risponde al soddisfacimento di un’esigenza di base, quella del nutrimento. A sua volta, però, è un oggetto attraverso il quale comunichiamo il nostro senso di identità, rispondendo agli stimoli della società contemporanea per la quale esprimere chi siamo è diventato fondamentale. Il mondo moderno, infatti, mette spesso in forse l’adeguatezza di ognuno di noi sul piano identitario. La cucina, e quindi l’elaborazione degli alimenti, è un ambito comportamentale a cui tutti si possono dedicare e possono esprimere le proprie competenze. Anche fotografare i piatti di un ristorante bello o di uno più economico e postarli sui social ha la medesima valenza: raccontare ed esprimere se stessi”.

8 curiosità

  • La nutrigenomica studia la relazione tra cibo, geni e salute, come il cibo può influenzare il nostro Dna.
  • La nutrigenetica indaga le varianti genetiche presenti negli individui in relazione al consumo di alimenti.
  • Il coriandolo è tra le spezie più divisive: c’è chi lo descrive come fresco, fragrante e agrumato, chi lo percepisce simile al sapone o alla muffa. 
  • I recettori olfattivi dell’uomo sono 6-12 milioni. Un cane si stima ne abbia tra i 200 e i 300 milioni. 
  • Sono al massimo 60 minuti circa quelli che trascorriamo a masticare in un giorno.
  • Le papille gustative sono esposte all’interno della bocca attraverso piccole aperture chiamate bottoni gustativi.
  • 30mila sono i geni che costituiscono il nostro patrimonio genetico 
  • 4mila specie di piante come aromi sono quelle che usiamo in cucina

Dal mio articolo su Corriere della Sera, inserto Salute

Credito foto in apertura: Icons8 Team/Unsplash.

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